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In un mondo che cambia velocemente come noi cambiamo le mutande (non tutti) l’università è rimasta quella di novant’anni fa

«Niente mi hanno insegnato all’università. Solo a scrivere chiaro il mio nome e il cognome. Non a capire un gesto o il mistero di un occhio. Niente mi hanno insegnato all’università. Non a capire un uomo, nemmeno a guardarmi allo specchio. Non conosco un paese, un giorno di fame un mese di disperazione.»

Così La lettera dell’analfabeta di Ennio Flaiano.

Sentendo queste parole ho pensato: “Ha ragione! Cosa ca**o ho fatto all’università? Non mi sembra diversa da quella di novant’anni fa’’

Ho dato 24 esami, e come me, centinaia di altri studenti del mio corso; l’80% consisteva in questo: manuali su manuali su manuali che studiavi per ore, giorno dopo giorno in biblioteca, per poter rispondere correttamente a tre domande su quello che c’era scritto nei libri. Esami all’insegna del nozionismo, e dello studio mnemonico. Sei bravo se sai a memoria. Non era importante quello che avevi capito o pensato, ma l’obiettivo sembrava uno solo: verificare che i dati fossero inseriti correttamente nel nostro Hard Disk – o per i più giovani nella loro SSD – e che lì nel cervello stazionassero.

Upload avvenuto con successo al 100%. Complimenti, 30 e lode! E sembra sentir gridare Bonolis: «Avanti un altro!»

Così ogni mio confronto con amici o studenti esteri aveva una domanda che si ripeteva ciclica: «come sono impostati da voi i corsi universitari?», ed ogni risposta era altrettanto regolare: «Progetti. Ci chiedono di fare progetti o ricerche»

Questa risposta mi annientava. Avevo, nella mia ingenuità di neo immatricolato, pensato l’università come un luogo di discussione, attraverso il quale si può crescere e sviluppare una coscienza che nasce dall’ascolto di molte opinioni. L’unico confronto era con un libro (spesso uscito fuori catalogo da anni), nessun lavoro di ricerca in cui puoi darti da fare e metterti in gioco capendo i tuoi limiti e il tuo potenziale. Nessuna vera possibilità di poter sviluppare un pensiero critico sapendo analizzare più fonti, compararle, comprenderle, tornare indietro quando si capisce che una strada presa è sbagliata.

 

Avevo scritto un paio di anni fa ad un professore andato da poco in pensione, il suo corso, Teorie della Narrazione, non era stato rinnovato e a proposito di questo mi scrisse: «Teoria della narrazione è una materia troppo moderna, da noi si deve studiare la bibbia e le storie dei santi, o magari collaborare con gli studi cinesi per il controllo sociale».

Ero spiazzato. Ma era quello che avevo notato in anni di università. Aveva tristemente ragione.

 

Così mi domando: non è forse meglio sviluppare coscienze critiche?

Formare capacità di analisi, abilità nel guardare un problema da prospettive diverse per trovare una soluzione?

Forse proprio come diceva Flaiano, davvero l’università per come è strutturata, non insegna ad essere sensibili al mondo, e se come lucidamente ci spiegava Eco: «essere colti non significa ricordare tutte le nozioni, ma sapere dove andare a cercarle» a che scopo imbottire la testa di dati? Per i dati c’è la Treccani.

Ci sarà sicuramente un motivo se fino a qualche anno fa non compariva neanche una università italiana tra le 200 migliori al mondo?

E non è ancora più indicativo che solo uno studente su tre decida di continuare con una laurea magistrale?

Forse l’università dovrebbe usare i suoi strumenti del sapere per formare coscienze più che enciclopedie ambulanti. Per metterla in termini musicali, serve a poco al mondo chi sa suonare Bach alla perfezione ma poi non riesce ad improvvisare.

Ruben scrive canzoni, articoli, interviste, legge, racconta, appassionato di politica e di dolce vita. Borsalino addicted.