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ORA LA MAMMA NON HA TEMPO, STA SCRIVENDO UN LIBRO

Donne ribelli, unitevi, ma non troppo, perché poi fate paura e il focolare brucia.

Sarah Malnerich
Dopo Non farcela come stile di vita è fresco fresco il nuovo libro delle “bad influencer più amate dalle donne”: Angele del focolare: dove sta di casa la felicità?
Ho fatto una chiacchierata con Sarah Malnerich, coautrice con Francesca Fiore del blog Mammadimerda, attivista e angela del focolare.

Cito l’introduzione del vostro libro: ‘’Abbiamo tempo fino al 2157, anno previsto per il raggiungimento della parità di genere.” L’uomo sarà ancora stranito da tutti questi cambiamenti? Come te lo immagini questo 2157?

Nel nostro spettacolo ci immaginiamo un 2157 immaginario e utopico.
Il 2157 è la data prevista, ma visto lo stato dell’arte e quello che sta succedendo a livello mondiale, vedi gli Stati Uniti e quello che è successo per l’aborto e la pillola abortiva, è chiaro che se non si presidiano questi temi e non si presidiano i diritti, temi e diritti sono sempre appesi a un filo. Le vittorie in merito ai diritti non sono mai definitive.

Potremmo parlare di 2157 se solo si marciasse in una certa direzione, ma mi sembra ci sia stata una battuta d’arresto.
Se guardiamo la situazione in Italia, vediamo lo stesso: i fondi di PNRR per i servizi per l’infanzia e gli asili nido stanno quasi per sfumare, perché non c’è stata un’attivazione in tempo e una corretta gestione dei bandi, ci sono stati evidentemente degli intoppi, fatto sta che questi soldi, che sono fondamentali soprattutto per liberare il lavoro delle donne e il tempo delle donne, non si sa se riusciremo a investirli e l’Italia è già al di sotto dello standard europeo fissato dei requisiti minimi che noi avremmo dovuto raggiungere, quindi diciamo che questo 2157 quasi ci piace. Quasi ci speriamo, ecco.

Mi è piaciuta molto la frase “è vuoto il mulino che vorrei”.
Il vuoto visto come l’esatto opposto di quello che ci hanno sempre insegnato di dover avere, questo riempimento emotivo e di funzioni attorno a noi, di persone della nostra vita che devono in qualche modo completarci. Qual è la tua idea di vuoto?

Diciamo che di solito il lavoro di cura che ricade sulle donne non riguarda solo i figli dentro un nucleo familiare, ma si estende anche alla relazione, al partner, a un genitore anziano. Perché c’è sempre questo stereotipo, questo bias, di noi che siamo più predisposte non solo alla cura, ma anche all’ascolto, all’empatia, alla manutenzione e alla conservazione della coppia in un’ottica anche di mascolinità tossica, per cui sembra che gli uomini non abbiano un’intelligenza emotiva, una fragilità, una sensibilità o comunque sicuramente non la possono rivelare. Oltretutto, su questo si innesta il modello familiare patriarcale. Ci hanno trasmesso anche l’idea di desiderio, di come rivendicare i propri desideri e riconnettersi ad essi sia una forma di autodeterminazione, siamo state indotte a desiderare certe cose, come il “farsi la famiglia”, l’avere la casa, i figli… come se quello fosse il top di gamma della nostra realizzazione, ma non è così e può non essere così, non per tutte, per fortuna adesso si è aperto anche un grosso tema sulle childfree, per esempio. Sembra quasi un’oscenità il dire “io non voglio figli”, sei guardata comunque come una specie di mostro, c’è qualcosa che non va, è il tuo destino, il tuo mandato sociale, ecco, non è vero.

E anche l’impossibilità fisica, sotto questo sguardo, è vista come un errore biologico che deve pesare sul senso di colpa che una si deve portare dietro..

Questo fa sempre parte del doppio standard allargato che esiste per le donne, quella cosa che “tanto comunque come fai sbagli”, se sei childfree perché scegli di non avere figli, comunque sei sbagliata e su di te ricade lo stigma e l’inadeguatezza, se sei una childless perché i figli non riesci ad averli, comunque rimangono le stesse sensazioni e lo stesso giudizio. C’è una pressione sociale: maternità e gravidanza sono viste come destino, per cui – se nella tua vita questo non si realizza- sei una donna monca.

C’è poi una rottura interna: da una parte la rabbia che si prova verso qualunque cosa impedisca l’evolversi dei diritti sociali di donne e di individui femminili e dall’altra l’accoglienza verso quelle generazioni molto distanti dalla nostra, quella in cui semplicemente il pensiero del “non potete capire” ci ammorbidisce.
Come convivono queste due parti?

Questa ambivalenza ci accompagna sempre, c’è dietro il fattore storico, non solo culturale.
Il diritto di famiglia in Italia è cambiato solo nel 1975. Fino ad allora c’era la patria potestà e la potestà maritale. Il tuo modo da donna per sopravvivere era solo quello, oltre al fatto che comunque le donne hanno iniziato a lavorare dagli anni ‘60, tralasciando le due guerre dove era lecito che le donne andassero a lavorare in fabbrica per sopperire alla mancanza degli uomini al fronte, ecco, lì era normale, e comunque sempre nelle classi più basse. C’è questo sentimento che un po’ ci lacera, perché sei spaccato a metà, tu hai una giusta rabbia. La rabbia non è un sentimento per forza negativo, eh. È un’emozione come le altre e hai delle giuste rivendicazioni e argomentazioni, ma come fai a confrontarti e a spiegare certe cose con nonne che hanno 90 anni o con madri di 70, che fanno ancora fatica a capire scelte delle generazioni precedenti? È davvero una catena transgenerazionale questa rabbia che ci portiamo appresso e che abbiamo grande difficoltà ad esprimere, perché è qualcosa che non si confà alle donne.

Questa accoglienza che abbiamo verso chi non ha gli strumenti di comprensione per introiettare i temi femministi e per capire i cambiamenti che inseguiamo, fa parte dell’accudimento a cui siamo state formate? Dobbiamo essere più tranchant?

Già all’interno della nostra coppia autoriale ci sono due posizioni diverse: c’è una posizione più aperta che rivendica l’opportunità di svolgere una funzione educativa verso gli uomini  contemporanei, aperta il più possibile al dibattito e quindi si, va bene, io mi apro al dibattito, ma non sono e non voglio fare l’educatrice di uomini che comunque hanno tutti gli strumenti e hanno avuto gli strumenti come noi negli ultimi 200 anni per comprendere certe dinamiche.
Il femminismo non è un tema di oggi, se ne parla da duecento anni con ondate diverse che hanno portato istanze diverse l’una dall’altra, però nn è che siamo proprio qui a dire delle novità, ci sono dati nero su bianco che dimostrano quanto la disparità di genere leda tutti, non solo noi a livello economico. E’ proprio non voler vedere. è dolo. è cattiva fede. E allora vaffanculo.

Dall’altra parte, appunto, se tu comunque non apri e non rendi questi temi collettivi e non ti sforzi ancora di far capire quanto invece ricada su di tutti la discriminazione e quanto tutti la paghino, non ha senso, perché è importante che la battaglia venga abbracciata dalla collettività e che venga sentita come una questione di civiltà.
Per quanto riguarda chi non ha gli strumenti e la consapevolezza, lì abbiamo un altro paio di maniche, non possiamo stigmatizzare chi è a un livello diverso di un percorso, il femminismo in questo caso.
Il femminismo è una pratica, è sempre in cammino e sempre in evoluzione.
Ecco perché si parla di “femminismi” e ben venga il pluralismo, soprattutto in questa epoca.

Quando avete iniziato il progetto Mammadimerda avevate contezza di come sareste cresciute e di come il vostro blog sarebbe diventato non solo un luogo di satira, ironia e commento, ma un vero e proprio grande sostegno verso tutto ciò che è femminile?

Abbiamo iniziato per gioco e per divertimento all’inizio, un blog di scrittura pura e
poi in realtà sì, un po’ come atto di ribellione che rientra molto nei nostri caratteri, entrambe ci siamo ritrovate a vivere la maternità e a non ritrovarci nella narrazione istituzionale e formale di questa cosa.
Ci siamo fermate e ci siamo dette “siamo noi o non ce l’hanno detta tutta?”.
Mammadimerda: anche la scelta del nome è un atto politico, come dire “va bene, allora lo rivendico, sono io che sono sbagliata, è un ribaltamento.
Alla fine, se siamo così tante a vederla in questo modo, forse è il modello che è di merda.

E se all’apparenza il nome che avete scelto sembra escludente verso chi non ha figli, in realtà scopri che dentro la mammadimerda c’è anche la non-mammadimerda, il maternodimerda, forse..

 

Diciamo che nel tempo i temi si sono allargati a tutto il femminile, comunque quando parli di femminile e di femminismo non puoi non parlare di maternità perché è il discrimine per eccellenza. Che tu li abbia, non li abbia, li voglia, non li voglia o non li possa avere, comunque è quello il marchio che ti ostacola.
Pensa a un colloquio di lavoro, verrà sempre privilegiato un candidato uomo, perché la discriminazione è a monte, dal punto di vista normativo.
Chi ti seleziona sa che potenzialmente tu potrai assentarti cinque mesi e  l’uomo, se diventa padre, dieci giorni.

Che dobbiamo fare? in realtà il blog fin dai suoi esordi non ha mai parlato della maternità dal punto di vista puro, al centro è sempre stata la donna, come vive, cosa sente, come affronta la quotidianità e questa esperienza.

Mammadimerda parla di donne.

Sarah Malnerich e Francesca Fiore
Sarah Malnerich e Francesca Fiore