Trovo problematico che molte istituzioni culturali abbiano ripreso la loro programmazione senza portare una riflessione radicale sul periodo appena vissuto e sugli interrogativi che ne conseguono. Sul fatto che non vi sia stato un serio dibattito sulla cultura tra le alte cariche dello Stato o su come i musei martoriati contino sempre meno visitatori, soprattutto tra i giovani.
Ho insomma avuto l’impressione che le istituzioni museali torinesi, nella maggior parte dei casi, abbiano rispolverato e infiocchettato le loro collezioni permanenti.
La mostra collettiva presentata dalla Fondazione Sandretto, Burning Speech, porta un punto di vista differente. Innanzitutto, perché inaugura Verso, un progetto coinvolge giovani tra i 15 e i 29 anni con una serie di workshop, talk, conferenze e una borsa di ricerca. In secondo luogo, perché parla di ciò che è imprescindibile per l’ascesa delle società: il linguaggio.
Non si tratta di un concetto vago narrato alla luce di studi poco approfonditi, bensì della riprova che si tratta di qualcosa di vivo e incandescente, che si formalizza nelle opere esposte e al contempo dà forma al pensiero.
Le ricerche presentate sono completamente diverse tra loro e non vi sono mai concetti ridondanti. Il linguaggio viene presentato sotto forma di data e strumento di controllo da Simon Denny, come arma da Eva Marisaldi, come mezzo di denuncia politica da Claire Fontaine.
Non vi è però un punto di vista occidentale o privilegiato, poiché l’attenzione si rivolge anche ai margini nell’opera di Sharon Hayes, in cui la parola è strumento di difesa delle minoranze, o nel lavoro di Bouchra Khalili che, con la sua trilogia video in tre diverse lingue, affronta scottanti temi sociali.
Vi è poi un altro aspetto fondamentale: l’uso del linguaggio come unico mezzo di coesione e presa di posizione, riportando così lo spazio pubblico al centro, sottolineandone la sua tangenza con il privato.
Una mostra da vedere, difficile da restituire in poche battute.