Il pensiero di Davide Quadrio, direttore del MAO di Torino
Cosa fare quando il mondo sembra andare in una direzione inarrestabile di autodistruzione? Cosa fare ora che le parole perdono di significato, e diventano un brusio, una specie di white noise stordente che non lascia più intendere nulla, che confonde i sensi e le logiche e che ti lascia (si parlo proprio di te, individuo collettivo) inebetito, affossato in un fluire incontrollabile di informazioni incongruenti o addirittura false?
Lasciamo queste risposte in sospeso e cambiamo scenario.
Sulla facciata del MAO sventolano due bandiere bianche. Non sono un segnale di resa o un simbolo di rassegnazione, anzi. L’opera dell’artista di origini thailandesi Rikrit Tiravanija (Buenos Aires, 1961) è il manifesto e la dichiarazione d’intenti del MAO che, proprio in questo momento storico, vuole lanciare un messaggio chiaro e inequivocabile: la frase Fear Eats The Soul, scritta a caratteri cubitali neri sul tessuto immacolato, invita infatti al coraggio, alla presa di posizione, alla reazione di fronte alla paralisi causata dal terrore che corrode l’anima.
Ecco quindi la risposta alle prime domande con cui ho aperto questo testo. Proprio perché il mondo va in una direzione per cui i significati si confondono in un amalgama di post-verità, in cui vale tutto e il suo contrario, un’istituzione culturale ha il compito preciso di essere strumento di analisi e soprattutto di diventare luogo di negoziazione di una libertà non solo di pensiero, ma anche di azione fondante per il pubblico smarrito, incerto sul da farsi, confuso e intrappolato in una angoscia strisciante.
Tiravanija ha fatto della bandiera un oggetto feticcio, un simbolo che ritorna con grande frequenza nella sua ricerca sin dagli anni ’90 e, in questo momento storico dove nazionalismi, etnicismi, definizione astratte e oppositive di universi culturali sembrano diventare centrali e irrinunciabili, quest’opera mi è sembrata perfettamente declinabile all’interno delle attività del museo e delle sue responsabilità culturali.
Il Museo d’Arte Orientale, in quanto isola fluttuante in Italia e Europa di culture altre, in cui sono rappresentate per massimizzazione e non nella loro complessità culturale, sociale e storica, mi sembra il luogo adatto per aprire uno spiraglio critico verso i temi sopracitati. MAO come luogo rivoluzionario (e forse questo acronimo alla fine ha un suo perché, ironicamente…) o, se non rivoluzionario, almeno critico. Il MAO come osservatorio sperimentale e oggetto stesso di operazioni trasformative.
Questo protetto si instaura in una generale trasformazione del museo e di come viene usato: luogo del fare e dell’agire sottile, in cui mostre e attività diventano partecipative proprio perché si basano su una relazione tra visitatore e spazio museale, in un’esperienza emozionale, trasformativa e di cura; agente di trasformazione del territorio; luogo di accoglienza di trend artistici ed educativi globali.
Il museo si allarga e va oltre le proprie mura. Fear Eats the Soul, esposta al MAO dal 2 maggio al 1 settembre, occupa anche uno spazio aperto e pubblico della città. Infatti dal 2 al 31 maggio quattordici banner con altrettante frasi di Tiravanija sono esposti sotto i portici di via Po, liberamente accessibili alla cittadinanza. Freedom cannot be simulated, Less oil more courage, I do not know what are we yelling about, Tomorrow is the question: gli stendardi invitano a porsi questioni su tematiche attuali e problematiche quali la crisi ambientale, il ruolo del lavoro nella nostra società, i conflitti fra individui, la violenza esercitata dai più forti sui più deboli e, in generale, sul futuro che ci attende.
In un momento storico così turbolento, in cui i conflitti aprono questioni etiche fondamentali, con queste installazioni il MAO sceglie di dare un segnale che va in direzione opposta a quella delle dinamiche delle contrapposizioni duali per favorire invece il dialogo. Senza paura, con la dolcezza che leggevo qualche giorno fa su un muro cittadino: la gentilezza è il nuovo punk.