Grazie a una visione fortemente contemporanea, il museo situato nel cuore del Quadrilatero Romano cavalca l’innovazione e trasformerà il concetto stesso di evento espositivo.
E’ qui da pochi mesi, ma Davide Quadrio, classe 1970, il nuovo direttore del Museo d’Arte Orientale di Torino sta già traghettando le collezioni ospitate nello storico Palazzo Mazzonis verso il futuro. Anzi il suo sogno è di creare un ponte tra Torino e l’Asia.
Da dove nasce il suo interesse per l’Oriente?
E’ stato molto istintuale, ho iniziato a occuparmi di cultura materiale all’inizio degli anni ‘80 attraverso la lettura di riviste e fanzine internazionali, all’epoca gravitava tutto intorno alla Libreria Carù di Gallarate, un posto incredibile che vende libri, dischi e all’epoca editava il magazine Rolling Stone. Fui folgorato dalle foto di una collezione di gioielli tibetani pubblicata da Franco Maria Ricci così durante gli studi a Ca’ Foscari nel ’91 sono partito per Shangai. E tra un viaggio e l’altro ho vissuto per ben 27 anni in Cina.
Insomma era proprio scritto nel suo destino…
Mi sono laureato a Ca’ Foscari in Storia dell’arte e letteratura Cinese dopo un anno all’Accademia di Hangzhou. In quell’anno grazie a una carta da ricercatore dell’Ufficio Culturale di Lanzhou, città della Cina del nord ovest, tra mille difficoltà ho girato tutto il Tibet Orientale passando da un monastero all’altro, in autostop e quasi sempre a un’altezza di 4000 metri. Dopodiché laureato e rientrato a Shanghai, ho creato il primo centro d’arte indipendente a Shangai che si chiamava BizArt Art Center e che ha prodotto più di 900 mostre ed eventi in 12 anni di vita e che è entrato poi nel network del Prince Claus Fund, fondazione culturale della famiglia reale Olandese. Prima del Covid sono ritornato in Italia, pensavo che mi sarei trasferito nella mia casa nelle Marche per poi continuare a peregrinare in Asia, invece la mia candidatura al Mao a Torino è stata accettata ed è cambiato tutto.
Di fatto la sua direzione sta rivoluzionando il volto del MAO, qual è la sua visione?
In Europa si sa molto poco dell’Asia per cui ho pensato che nel museo ogni spazio debba essere usato per farlo diventare un progetto interpretativo, di costruzione ed espansivo che parlasse dell’Oriente in un contesto contemporaneo, non di arte contemporanea ma proprio di attualità.
Certo gli artisti viventi fanno parte di un medium che uso facilmente, essendo io contemporaneista, ma il contemporaneo entra anche attraverso scienziati come Stefano Mancuso, musicisti asiatici e non, che reinterpretano tradizioni millenarie. Ci saranno molte novità, per esempio cambieremo il concetto stesso di esposizione creando un dispositivo annuale tematico che inizia da una mostra e continua a cambiare con l’innesto di altre isole interpretative, come nel caso di Buddha10 che continuerà con un focus sulle vie della seta proto-islamiche dal Centro Asia al Mediterraneo, faremo in modo che tutti gli allestimenti siano il più possibile a impatto zero, apriremo una terrazza di 150 mq così come lavoreremo sul team, che voglio sia ispirato ai principi della diversity, e aprendo un corso di specializzazione sulle culture materiali asiatiche con UniTo e il dipartimento di lingue e culture orientali e africane. Anzi questo è già in essere!
Il MAO sta diventando un vero scrigno esperienziale, qual è il prossimo traguardo?
Nell’autunno 2023 realizzeremo un grande progetto con una delle collezioni proto-islamiche più belle al mondo che è italiana e non è mai stata esposta in una modalità interpretativa esperienziale come invece succederà a Torino.
La missione è inevitabile: proiettarsi in un contesto sempre più internazionale. Buddha10 andrà a Manchester al Centro di Arte Contemporanea Cinese e Il grande Vuoto, mostra che ho aperto il maggio scorso, a New Delhi e poi Bangalore.