La recensione di Ludovico Benedetto
Presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia, “Il Maestro Giardiniere” è più un percorso che un film, un viaggio di redenzione personale e riscoperta di sé.
La pellicola è essenzialmente uno slice of life, una rappresentazione naturalistica della vita reale del nostro protagonista, il maestro giardiniere Narvel Roth.
Un giardiniere esperto e colto, ordinato e maniacale, che ha saputo trovare la propria dimensione all’interno di un giardino privato di proprietà di una ricca vedova. Il rapporto tra i due, instaurato in anni di collaborazione, è a dir poco particolare, e pian piano il film ne sviscera gli oscuri dettagli.
Il sottile equilibrio che da tempo aveva portato stabilità nella vita del giardiniere e del suo capo viene compromesso con l’arrivo della nipote tossicodipendente della proprietaria della tenuta; a partire dall’arrivo della giovane, il film cambia completamente volto e, soprattutto, ritmo.
Le pellicole di Schrader, da “First Reformed” a “Mishima”, costruiscono microcosmi, percorsi di redenzione e luoghi circoscritti dove essa può avvenire. Il regista americano ha creato, in mezzo secolo di opere, il suo cinema governato da un registro di regole ossessivamente ripetute, concependo le sue opere come una sorta di rituale.
Dopo il problema della “creazione a rischio” e i terribili traumi dell’Iran sviscerati nei precedenti film, questa volta tocca al suprematismo bianco. Anni prima, in un’altra vita potremmo dire, Narvel ha fatto parte di un’organizzazione paramilitare neonazista. Violenza e odio erano i cardini della vita del giardiniere fino al sopraggiungere di una crisi morale che lo porta a denunciare i suoi “commilitoni”.
La natura è ancora una volta la via per riscoprirsi, un lento ma inesorabile percorso di cura da abbracciare e l’unico modo per sedare ed affrontare i demoni del proprio passato, tentando di plasmare la natura e dare una forma al caos del mondo.
Questa ritrovata disciplina e questo ordine si trasformano in una serie di ferree regole e un’accurata documentazione della sua vita trascritta giornalmente in un diario.
L’arrivo della nipote della vedova porterà il nostro protagonista ad affrontare, e non sedare, i demoni del passato e, finalmente, forse ad accettarli e superarli. Schrader si concentra sull’espiazione e la colpa, la solitudine e il disagio generazionale, da sempre i pilastri indiscussi delle sue pellicole.
Il maestro giardiniere, però, non si ferma qui; altrimenti, la pellicola non sarebbe piena come risulta mentre la si guarda. Il film si interroga costantemente sulla bellezza, sui tormenti dell’essere umano moderno e riesce a guardare all’attualità senza mai scadere nel banale. Il regista forza lo spettatore, ci forza, a interrogarci e a confrontarci con il nostro mondo, il mondo di tutti i giorni.
Schrader ci racconta sempre degli ultimi, dei dimenticati e del mondo che li e ci sovrasta. Odio e amore, violenza e leggerezza, realismo ed effimero si mescolano in un lungo percorso alla ricerca della forse non raggiungibile redenzione e della sempre più distante felicità.
«Ci sono giardini “formali”, “informali” e “selvaggi”. I primi sottomettono la natura a uno schema fisso inseguendo una perfetta simmetria; i secondi ridiscutono tale prospettiva integrandola romanticamente con i processi naturali; i terzi tendono invece ad azzerare ogni alterazione artificiale liberando definitivamente lo sguardo.»