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Tra interrogatori e solitudine, un libro di Murakami diventa il suo rifugio per l’anima

 

Alle 16.30 dell’8 gennaio, Cecilia Sala è atterrata a Ciampino, finalmente libera dopo ventun giorni di prigionia nel famigerato carcere iraniano di Evin. Appena scesa dall’aereo ha abbracciato il fidanzato, la madre e il padre. E poi ha ringraziato i rappresentanti del Governo che erano andati ad accoglierla. Il giorno dopo ha affidato a Mario Calabresi, direttore di Chora Media, e al suo podcast Stories, il primo racconto della detenzione a Teheran. Ha raccontato quando è stata arrestata, i giorni trascorsi in una cella dormendo a terra, senza cuscini né materassi, gli interrogatori subiti quasi ogni giorno. E di quando ha chiesto il Corano in inglese “perché pensavo potessero averlo, ma non mi è stato dato. Mi sono ritrovata a passare il tempo a contare le ore, a leggere gli ingredienti del pane che erano l’unica cosa scritta in inglese. La cosa che più volevo era un libro, la storia di un altro, una che non fosse la mia in cui immergermi”.

Poi, giorni dopo, le è stato dato “Kafka sulla spiaggia” di Haruki Murakami, forse originariamente nel pacco dell’ambasciata che non era mai arrivato. Quando ho ascoltato le parole di Cecilia ho pensato subito ad Azar Nafisi e al suo libro, Leggere Lolita a Teheran, dove l’autrice apre le porte della sua casa alle sette allieve più brillanti del suo corso per una serie di lezioni clandestine di letteratura. E ho pensato che, per Cecilia come per Nasifi e per tante donne iraniane, un libro è il rifugio dagli orrori della realtà quotidiana, uno spazio per difendere la propria dignità umana, un tempo per liberare l’immaginazione in attesa della libertà. Bentornata Cecilia!